Chiara Galeazzi è quel tipo di persona che per dirti qualcosa di serissimo, come che si trova in ospedale e che ha appena avuto un’emorragia cerebrale, prima ti fa un preambolo su quanto sono brutte le scarpe antinfortunistiche che si mettono le signore in reparto e quanto desidererebbe invece dei mocassini di Gucci. Infatti, prima ancora di fare l’autrice – esordisce a tutti gli effetti il 18 aprile con Poverina (Blackie edizioni) – Chiara è speaker radio e autrice comica, ha collaborato coi principali nomi di stand-up comedy italiani, e ora conduce anche il primo podcast di Netflix, Prossimamente. Una sera del 2021, all’età di 34 anni, mentre sta guardando su Youtube il video di una persona che non sopporta, si accorge di non avere più la sensibilità alla mano e si sente paralizzata per metà. Dopo aver liquidato la situazione come un comune attacco di panico e aver ingerito dei tranquillanti, decide di chiamare l’ambulanza e scopre di avere un’emorragia cerebrale in corso. Ne ha scritto in Poverina, che fin dal titolo chiede solo una cosa, per favore non abbiate pietà di me.

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Courtesy ADD
Poverina, di Chiara Galeazzi (Blackie Edizioni)

Iniziamo dal titolo, Poverina. Chi è la poverina?

«Ci sono due significati dietro alla scelta del titolo. Poverin* è un termine che utilizziamo davanti alle sfighe degli altri, in maniera quasi automatica. Per la prima volta mi sono trovata nella situazione in cui erano gli altri a dirmelo e mi sono resa conto che pronunciare quella parola vuol dire annullare tutto ciò che si sa di quella persona. Mi sono sentita come se la diagnosi si fosse mangiata la mia personalità, e io ero diventata solo ed esclusivamente “la poverina”. Cito, nell’esergo, Odio essere una vittima di Susan Sontag non a caso: è difficile entrare in un’ottica in cui la tua posizione è cambiata e diventi una vittima. Tu sei tu, a cui a un certo punto è successo qualcosa».

E l’altro motivo?

È una questione meta-letteraria. Ho scritto il libro pensando agli autori umoristici che mi piacciono, Nora Ephron e David Sedaris, che scrivono sempre dei fattacci loro. Stavo scrivendo un altro libro sempre su di me mentre mi è successo questo, allora poi ho cambiato tutto. Mentre lo scrivevo pensavo che forse era l’ennesimo memoir di quello che sta male che cercano di piazzare come un manuale di auto-aiuto. C’è un genere letterario a sé: cito ancora Susan Sontag, lei diceva che non riusciva a pensare ad altro, che filosofeggiava sulla malattia, e la capisco perché è una cosa talmente dirompente realizzare che hai un corpo che può decidere di smettere di funzionare. Alla fine i libri che ne escono ti vogliono o impietosire o dare lezioni di vita. Per cui mi piaceva chiamare questo genere di libro, cioè memoir di una persona che sta male, con quello che tendenzialmente pensa il pubblico che lo legge».

Per me la parte più divertente è quando devi decidere come scrivere un post Instagram sulla malattia, com’è andata?

«Era una situazione altisonante. Come facevo a spiegare a chi mi conosceva che avevo un’emorragia cerebrale ma che non era così grave come sembrava visto che erano 7 giorni che alla fine non facevo altro che guardare serie tv sdraiata a letto? Che sì era grave ma non la stavo vivendo come mi immaginavo si facesse, con la mano sulla fronte e i “ma quanto soffro”. Poi dovevo anche spiegare perché non sarei stata in radio. Lì ho intuito quanto il vittimismo possa essere così stimolante sui social, perché è come se tu in quel momento dessi un senso a quello che è successo: “Almeno mi ritornano indietro dei cuori”. Sicuramente il post è la versione in piccolo di dare un senso alle cose creando dell’arte, prendo il mio cuore spezzato e lo trasformo in qualcosa di bello, e io l’ho fatto con una vena del cervello. Il resto è stato un calcolo di quale foto mettere, quando mi lavano i capelli così posso farmi una foto decente».

Come si ritorna a casa?

«A un certo punto ho proprio dovuto chiedere di parlare d’altro. Sono rimasta colpita dalle persone che lavoravano mentre stavano male, poi ho capito che lo facevano per distrarsi da quello che gli stava succedendo. La psicoterapia mi ha aiutato in questo. Il libro invece è stato scritto in vari tempi, una parte appena sono uscita dall’ospedale. Quando sono tornata alla vita di prima, era cambiato tutto, io stessa non mi percepivo più uguale, e ho preso una lunga pausa nella scrittura. Non avevo ancora la lucidità di guardare a quello che era successo perché non era ancora nel passato. La scrittura è stato più un modo per chiudere la storia».

Come fanno messaggi, note vocali mandate nelle chat o post Instagram a trasformarsi in materiale letterario?

«Quando in pronto soccorso mi hanno detto, “signorina lei ha un’emorragia cerebrale”, il mio primo pensiero è stato che di questa cosa dovevo scrivere. Mi capita spesso, ho due voci nel cervello, una che mi dice che devo scrivere, raccontare alle persone e farle ridere. Allo stesso tempo vorrei che tornasse utile. Ho dedicato parte di questo libro a descrivere com’è cagare sdraiati anche perché la mia speranza è che qualcuno leggendolo si faccia trovare prepara- to – purtroppo ci sono cose che la gente non ti racconta. Quando mi trovo a descrivere il libro come un libro comico sull’ictus, la perso- na davanti non sa che faccia fare. Questa è la seconda stesura in cui concilio le due voci».