"White privilege", "male privilege", "thin privilege"...il concetto di "privilegio" (ok, soprattutto nella sua versione English) è ovunque, l'avete notato? Spunta fuori da tutte le parti: su Instagram, al pranzo coi parenti, sui giornali. E anche se la parola non viene sempre scritta nero su bianco, una volta capito di che si tratta la vediamo ovunque, tra le righe o ingombrante come l'elefante nella stanza. Questo perché, quando si tratta di disuguaglianze sociali non si può prescindere dal concetto di privilegio ed ecco perché abbiamo deciso di dedicargli uno spazio nel nostro Dizionario dell'inclusion, un luogo (ovviamente nel nostro Cosmo Village) da cui (ri)partire per costruire delle conversazioni sane che non si trasformino in un'insensata lotta fra troll. Iniziamo? Iniziamo.

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Cosa significa?

Sono solo dieci lettere, ma ci sono fior fior di studi sociologici che da anni si occupano dell'idea di "privilegio". Secondo il New Yorker il concetto è entrato in scena alla fine degli anni Ottanta, quando Peggy McIntosh, una studentessa di Women's Studies alla Wellesley University, ha iniziato a scriverne pubblicando nel 1988, un saggio intitolato "White Privilege and Male Privilege: A Personal Account of Coming to See Correspondences Through Work in Women's Studies". "Abbiamo tutti una combinazione di i vantaggi non guadagnati e svantaggi non guadagnati nella vita", spiega l'autrice, "E cambiano minuto per minuto, a seconda di dove siamo, di chi vediamo". Con "privilegio", infatti, si indica l'accesso al potere sociale ottenuto non sulla base del merito, ma per la semplice appartenenza a un gruppo sociale che risulta dominante e favorito. Il privilegio varia a seconda di diversi fattori come l’etnia, il genere, l’orientamento sessuale, l’età, la classe sociale, la religione, e molti altri. Come spiega McIntosh quindi, ogni persona, sarà in qualche modo privilegiata e in altri modi svantaggiata sulla base delle sue caratteristiche ed esperienze di vita. Ci sono addirittura dei siti web dove potete "misurare" il vostro grado di privilegio rispondendo a delle domande: si fa per ridere ma può essere utile.

Quando usare questa parola

Non tutto quello che ci piace e che ci manca è un privilegio altrui. Certo, essere ottimisti può aiutare nella vita, ma non è un privilegio, solo una caratteristica di certe persone. Per parlare di "privilege" dobbiamo guardare alla struttura della nostra società e a quelle categorie che il sistema favorisce in modo sistematico e evidente. Gli uomini, ad esempio, hanno un privilegio che deriva dal loro genere (il famoso o famigerato "male privilege") perché i dati ci dicono che il mondo del lavoro li predilige a scapito delle donne: vengono pagati di più, gli airbag sono progettati apposta per loro e...potremmo andare avanti a lungo. Altro esempio: le persone magre godono di un privilegio, lo sapevate? Già, e non certo (non solo) perché cresciamo con l'idea che "magro è bello", ma perché sempre le statistiche ci dicono che le persone grasse hanno meno opportunità lavorative, più problemi a spostarsi negli spazi pubblici progettati per persone di un certo peso e via dicendo.

Reminder

"Per capire il modo in cui funziona il privilegio, devi essere in grado di vedere schemi e sistemi nella vita sociale, ma devi anche preoccuparti delle esperienze individuali" spiega McIntosh. Il privilegio infatti è strutturale e non personale: bisogna ricordarsi di tenere separate le due cose. Non è affatto detto che un uomo bianco cisgender abbia una vita automaticamente più semplice di una donna nera disabile, ma il privilegio non viene meno perché esiste al di là dei singoli casi. Il sistema che a livello storico e sociale rende un certo gruppo privilegiato rispetto a un altro non sempre si ritrova nelle vite dei singoli, ma questo non lo rende meno reale. Allo stesso modo non bastano le buone intenzioni degli individui per scardinare un intero sistema. Io posso anche sostenere di non badare al colore della pelle, ma questo non cancella l'esistenza del cosiddetto "privilegio bianco" né le disuguaglianze che ne derivano.

Il sistema che a livello storico e sociale rende un certo gruppo privilegiato rispetto a un altro non sempre si ritrova nelle vite dei singoli, ma questo non lo rende meno reale

Cosa c'entra con me


Come abbiamo detto, ognuno di noi è in qualche misura privilegiat* e parlarne non ha certo lo scopo di colpevolizzarsi o colpevolizzare. Il problema, però, sorge quando chi ha un privilegio si rifiuta di fare un passo indietro e di mettere in discussione non tanto la propria posizione personale, ma almeno il sistema nel suo complesso. Così il dialogo diventa impossibile perché manca una base comune di partenza. C'è l'idea che riconoscere i propri privilegi sia una sorta di "espiazione dei peccati" e che quando ci viene chiesto di riconoscerli (l'espressione "Check your privilege" è famosa in questo senso) sia un vero e proprio attacco personale. Prendere atto della nostra posizione nel mondo, invece, è un modo per imparare qualcosa di nuovo su di noi e sulla società in cui viviamo. Può aiutare a mettere in dubbio la validità assoluta del nostro punto di vista, ad aprirsi al dialogo e a provare l'incredibile brivido di cambiare opinione e aprire la mente a qualcosa di nuovo (c'è chi dice sia meglio del sesso, provare per credere). Chi possiede un privilegio è responsabile di come reagisce al sistema in cui vive e ha un ruolo nel cercare di scardinare i pregiudizi su cui esso si basa. Riconoscere la propria posizione è infatti un punto di partenza per diventare buon* alleat* nella lotta per un mondo più equo.