È giunto il momento di iniziare a tirare le fila di questo 2020, un anno assurdo, doloroso, inspiegabile che ancora dobbiamo metabolizzare. Ma come si fa a guardarsi indietro e a trovare risposte a questi 12 mesi che sembrano essere durati un secolo e che ancora non sembrano avere né capo né coda? Come facciamo a ripercorrere i momenti più importanti di una anno che ci ha segnati per sempre? È difficile. Ma guardarsi indietro serve anche a metabolizzare e, se noi non abbiamo risposte, possiamo affidarci a chi ne ha. Google, per esempio, ha analizzato le parole più cercate del 2020 e i risultati possono guidarci tra flashback inaspettati. Un esempio? Tra i personaggi più cercati di quest'anno c'è anche la giornalista Rula Jebreal e noi vi diciamo che è giusto così perché ci riporta indietro allo scorso febbraio, sul palco dell'Ariston dove il suo monologo sui diritti delle donne ha commosso l'Italia.

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Rula Jebreal, 47 anni palestinese naturalizzata italiana, è nata a Haifa, in Israele ed è cresciuta in un orfanotrofio di Gerusalemme dove il padre - un imam di origini nigeriane - l'ha abbandonata ancora molto piccola insieme alla sorella. Sua madre, coma ha raccontato a Vanity Fair, si è uccisa quando lei era piccola "dopo un’infanzia di violenze tra i 13 e i 18 anni". Negli anni '90, poi, Jebreal si è trasferita in Italia grazie a una borsa di studio all'Università di Bologna che le ha permesso di laurearsi in fisioterapia. Il giornalismo, però, è sempre stato la sua grande passione di pari passo all'attivismo per la causa palestinese.

Quando lo scorso febbraio le è stato chiesto di partecipare come presentatrice al Festival di Sanremo si sono subito scatenate le polemiche da parte di diversi esponenti politici che non approvano le sue posizioni pro-Palestina. Dopo tira e molla e discussioni varie, quindi, le è stato detto che poteva partecipare a una sola condizione: che parlasse di donne e di nient'altro. Lei così ha fatto e ci è riuscita magistralmente riportando i dati italiani sui femminicidi e mescolando racconti personali, testimonianze di episodi di violenza e stralci di canzoni italiane dove le donne sono protagoniste. Ha parlato senza mezzi termini "delle cose di cui è necessario parlare".

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Daniele Venturelli//Getty Images
Rula Jebreal durante il suo monologo a Sanremo 2020

Così il suo monologo sul palco dell'Ariston è rimasto nel cuore di tutti e ha portato l'attenzione su un problema che ancora rimane drammaticamente irrisolto e ulteriormente aggravato dalla pandemia. Rileggerlo oggi ci ricorda a che punto siamo.

"Lei aveva la biancheria intima quella sera?".

"Si ricorda di aver cercato su internet il nome di un anticoncezionale quella mattina?".

"Lei trova sexy gli uomini che indossano i jeans?".

"Se le donne non vogliono essere sfruttare, devono smetterla di vestirsi da poco di buono".

Queste sono solo alcune delle domande poste in un’aula di tribunale a due ragazze che in Italia, non molto tempo fa, hanno denunciato una violenza sessuale. Domande insinuanti, che sottintendono una verità amara, crudele: noi donne non siamo mai innocenti. Non lo siamo perché abbiamo denunciato troppo tardi o perché abbiamo denunciato troppo presto, perché siamo troppo belle o persino troppo brutte, perché eravamo troppo disinibite, e ce la siamo voluta.

"Ti proteggerò dalle paure delle ipocondrie

Dai turbamenti che da oggi incontrerai per la tua via

Dalle ingiustizie e dagli inganni del tuo tempo.

Perché sei un essere speciale

Ed io, avrò cura di te"

Sono cresciuta in un orfanotrofio, insieme a centinaia di bambine. Noi bambine tutte le sere, una per volta, raccontavamo una storia, le nostre storie. Erano favole tristi. Non favole di mamme che conciliano il sonno, ma favole di figlie sfortunate, che il sonno lo toglievano. Ci raccontavamo delle nostre madri, spesso torturate, violentate e uccise. Ogni sera, prima di dormire, ci liberavamo tutte insieme e celebravamo quelle parole di dolore.

Io amo le parole. Ho imparato, venendo da luoghi di guerra, a credere nelle parole e non ai fucili, per cercare di rendere il mondo un posto migliore. Anche e soprattutto per le donne. Ma poi ci sono i numeri.

E in Italia, in questo magnifico Paese che mi ha accolto, i numeri sono spietati: negli ultimi tre anni sono 3 milioni e 150 mila donne che hanno subito violenze sessuali sul posto di lavoro. Negli ultimi due anni, in media 88 donne al giorno hanno subito abusi e violenze, una ogni 15 minuti. Ogni 3 giorni è stata uccisa una donna, 6 donne sono state uccise soltanto la scorsa settimana. E nell’80% dei casi, il carnefice non ha bisogno di bussare alla porta, per un motivo molto semplice: ha le chiavi di casa. Ci sono le sue impronte sullo zerbino, il segno delle sue labbra sul bicchiere in cucina.

"Butterò questo mio enorme cuore tra le stelle un giorno

Giuro che lo farò

E oltre l’azzurro della tenda nell’azzurro io volerò

Quando la donna cannone

D’oro e d’argento diventerà

Senza passare dalla stazione

L’ultimo treno prenderà"

Mia madre Zakia, che tutti chiamavano Nadia, ha perso il suo ultimo treno quando io avevo 5 anni. Si è suicidata, dandosi fuoco. Ma il dolore era una fiamma lenta che aveva cominciato a salire e ad annerirle i vestiti quando era solo un’adolescente. Il suo corpo era qualcosa di cui voleva liberarsi, era stato il luogo della sua tortura. Perché mia madre Nadia fu brutalizzata e stuprata due volte: a 13 anni da un uomo e poi dal sistema che l’ha costretta al silenzio, che non le ha consentito di denunciare. Perché le ferite sanguinano di più quando non si è creduti. L’uomo che l’ha violentata per anni, il cui ricordo era incancellabile, era con lei, mentre le fiamme divoravano il suo corpo. Aveva le chiavi di casa.

"Sally ha patito troppo

Sally ha già visto che cosa

Ti può crollare addosso

Sally è già stata punita

Per ogni sua distrazione o debolezza

Per ogni candida carezza

Data per non sentire l’amarezza"

Quante volte siamo state Sally? Mentre vi parlo c'è una donna che cammina nel mezzo della strada schiacciata dal senso di colpa, senza avere alcuna colpa. Voi non avete nessuna colpa.

Mentre Franca Rame veniva violentata il 9 marzo del 1973, l'anno in cui sono nata io, cercò salvezza nella musica. “Devo stare calma. Devo stare calma. Mi attacco ai rumori della città, alle parole delle canzoni, devo stare calma”, recitava nel suo potente monologo, “Lo stupro”, in cui ripercorreva quel fatto drammatico. Le canzoni che ho citato stasera sono tutte scritte da uomini, tutte. Dunque vedete è possibile trovare le parole giuste, è possibile raccontare l'amore, il rispetto, l'affetto e la cura. È questo il momento in cui quelle parole diventano realtà, il momento in cui quelle parole non siano solo cantate ma sono finalmente vissute ogni giorno. Per farlo dobbiamo lottare, urlare da ogni palco, anche quando ci diranno che non è opportuno.

Io sono diventata la donna che sono per mia madre, e grazie a mia figlia Miral, che è seduta in mezzo a voi. Lo devo a loro, lo dobbiamo a tutte, a tutti, a una madre, a una figlia, a una sorella, a una vicina, al nostro Paese, anche agli uomini perbene, all’idea stessa di civiltà e uguaglianza. All’idea più grande di tutte: quella di libertà.

Adesso parlo agli uomini. Lasciateci essere quello che siamo o quello che vogliamo essere: madri di dieci figli e madri di nessuno, casalinghe o in carriera. Siete i nostri complici, i nostri compagni, indignatevi insieme a noi, quando qualcuno ci chiede “Lei cosa ha fatto per meritare quello che le è accaduto?”.

"C’è un tempo bellissimo, tutto sudato

Una stagione ribelle

L’istante in cui scocca l’unica freccia

Che arriva alla volta celeste

E trafigge le stelle

È un giorno che tutta la gente

Si tende la mano

È il medesimo istante per tutti

Che sarà benedetto, io credo

Da molto lontano"

Sono stata scelta stasera per celebrare la musica e per celebrare le donne, ma sono qui per parlare delle cose di cui è davvero necessario parlare. Certo ho messo il migliore vestito e in fondo il senso di tutto ciò è nelle parole giuste e nelle domande giuste. Domani chiedetevi come erano vestite le conduttrici di Sanremo, chiedetevelo pure. “Com’era vestita la Jebreal?”.

Che non si chieda mai più, però, a una donna, che è stata stuprata, com’era vestita lei quella notte. Che non si chieda mai più.

Mia madre ha avuto paura di quella domanda. Mia madre non ce l’ha fatta. E così tante donne. E noi non vogliamo più avere paura. Non vogliamo più essere vittime, orfane, un accessorio, una quota. Io lo devo a mia madre Nadia, lo dobbiamo alle nostre madri, lo dobbiamo a tutte noi. E lo devo anche a me stessa. Lo dobbiamo alle nostre figlie e a quelle bambine qui e là, perché nessuno può permettersi di togliere e di toglierci il diritto di addormentarci con una favola.

Noi donne vogliamo essere libere, nello spazio e nel tempo, vogliamo essere silenzi, rumore.

Vogliamo essere proprio questo: musica.