L’anonimato è un atto politico? Scegliere di mettere l’arte davanti a tutto rispetto alla propria identità terrena è la vera rivoluzione dei nostri giorni? Nel panorama musicale contemporaneo, pochi artisti hanno saputo abbracciare l'arte in tutte le sue sfaccettature con la stessa maestria di Liberato guidandoci in una nuova Napoli al di fuori del contesto social in cui è stata catapultata negli ultimi anni. Dal mito di Partenope alle figure allegoriche di Pulcinella e del Munaciell' (per sapere di più, guardate È stata la mano di Dio di Paolo Sorrentino), l’artista partenopeo invita lo spettatore a perdersi nei vicoli nascosti di Napoli scoprendone i suoi misteri e la sua santità.

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Oltre alla sua straordinaria produzione musicale, ciò che rende Liberato un fenomeno unico e in antitesi con ciò che la società dell’apparire impone è l'incanto visivo che circonda la sua estetica. Dalla prima apparizione con NOVE MAGGIO, alla video-serie di CAPRI RANDEZ-VOUS e al complesso mondo narrativo di Liberato II, ogni creazione visiva sembra essere parte integrante della storia che le sue canzoni raccontano.

Oggi con l'uscita del film evento Il segreto di Liberato, per una settimana al cinema, un documentario tra live action e animazione che promette di svelare nuove sfaccettature dell'artista napoletano, sorge spontanea la domanda: qual è il ruolo di Liberato nel processo creativo che porta alla realizzazione della sua immagine visiva? Per rispondere a questa domanda, ci siamo rivolti a Francesco Lettieri, il regista custode dell'opera cinematografica e musicale di Liberato, che ci guiderà attraverso un viaggio nel suo universo.

Partendo dall'origine della loro collaborazione nata con NOVE MAGGIO, fino alla creazione de Il segreto di Liberato, esploreremo il legame unico che si è sviluppato tra il regista e l'artista. Inoltre, ci addentreremo nei significati simbolici che permeano il mondo di Liberato, come la metafora della maschera e il richiamo alla tradizione musicale napoletana. In un'epoca in cui l'apparenza spesso prevale sul contenuto, la figura enigmatica di Liberato solleva domande cruciali sull'identità, l'autenticità e il potere della musica nell'era digitale.

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Courtesy of Ufficio Stampa

Il segreto di Liberato come si inserisce nel processo creativo dell'artista, dopo CAPRI RANDEZ-VOUS e Liberato II?

«Con Liberato fin dal principio abbiamo sempre cercato di realizzare progetti differenti, di rinnovarci ininterrottamente, lui con la sua musica ed io conseguentemente con il fine registico in modo da sorprendere costantemente. Come giustamente citavi precedentemente, i due progetti visivi di CAPRI RANDEZ-VOUSe il videoclip di "Partenope", legato al secondo album di Liberato, dovevano sconvolgere il suo immaginario così come la sua immagine estetica e per il film abbiamo cercato di lavorare secondo gli stessi concetti. Sì un documentario musicale, ma che uscisse dalla sua forma canonica, strutturata secondo una ripresa live più conseguenti interviste, aggiungendo alla sua conformazione anche la forma animata in grado di poter arricchire il mondo di Liberato. Quindi partendo dal presupposto di realizzare qualcosa di differente dalla forma standard abbiamo integrato al suo interno anche la forma dell’anime giapponese».

Pensi che questo film possa raffigurare la fine di una prima parte della carriera di Liberato?

«Non ci siamo posti questa domanda rispetto a se stiamo effettivamente facendo un punto o meno rispetto al percorso che abbiamo intrapreso. Secondo me Liberato è un progetto molto fluido che continua ad evolversi costantemente. Se pensi che a giugno si esibirà al Primavera Sound di Barcellona, un festival internazionale di grandissima caratura, capisci che per noi non si tratta di un nuovo punto, ma di un passaggio come altri, in cui si possono implementare differenti tasselli a quelli che sono i differenti volti di Liberato».

Cosa rappresenta la maschera nella narrazione del mito di Liberato? Nel film si vedono i due caschi dei Daft Punk o il poster del secondo album di Burial, Untrue , personaggi che in un modo e nell’altro hanno cercato di mantenere l’anonimato mettendo al centro della loro visione artistica unicamente la musica.

«Non è un segreto che i Daft Punk siano una delle principali fonti di ispirazione per Liberato, sia a livello estetico che musicale, e la metafora della maschera viene messa in risalto dalla sua doppia funzione che rappresenta per l’artista, mettendo in luce sia le sue radici rappresentate dalla maschera di Pulcinella, una maschera classica della tradizione partenopea legata fortemente al simbolismo della sua città, che da quella dei due robot francesi a rappresentazione della sua contemporaneità. In qualche modo Liberato mettendo insieme queste due maschere è riuscito nell’intento di creare una sua visione diventando un personaggio, qualcosa che possa essere scisso da sé stesso».

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Courtesy Ufficio Stampa

Perché la narrazione animata si concentra prettamente nel mostrare il suo passato?

«Volevamo realizzare un documentario per arricchire la biografia di Liberato, ad oggi quasi totalmente sconosciuta. Non sarebbe stato giusto omettere questa parte anche perché sappiamo che molte persone che andranno al cinema vogliono anche conoscere ciò che effettivamente non è stato ancora mostrato al pubblico. Volevamo mantenere questa promessa, per cui abbiamo deciso di raccontare dei momenti fondamentali della sua vita che lo mettessero in mostra non ancora nelle vesti di artista e per farlo abbiamo scelto di affidarci all’animazione diventando un escamotage per narrare questa storia con il linguaggio della favola, del mito. Questo ci ha permesso di poter rimanere al limite della favola e della realtà, trattando dei momenti effettivamente accaduti e centrali nell’arco della sua vita ante-liberato».

Hai citato giustamente la funzione del mito che si rincorre dietro la figura di Liberato. Per questo il film si può intendere come una sorta di processo verso la verità?

«Sì, sicuramente questo è un elemento che fa parte del progetto di Liberato sin dal principio. La mitologia che si è costruito intorno in qualche modo alimenta il mito stesso, quindi è chiaro che la luce dell'inizio del film, che inonda lo spettatore, che sembra svelare ma che effettivamente rende ancora più oscura e misteriosa la sua immagine serve ad alimentare perennemente la sua storia. Nel momento in cui il mito dovesse essere svelato conseguentemente finirebbe con lui. È chiaro che Liberato e questo film hanno tutte le intenzioni di alimentarlo ma non per questioni puramente di marketing ma semplicemente per tutti coloro che ci vogliono credere e che si divertono a seguire la sua storia e ne vogliono avere ancora. Svelare il segreto di Liberato sarebbe stato come chiudere e far finire questo gioco e il conseguente interesse verso la sua immagine. Non avrebbe avuto molto senso».

La vostra collaborazione, come racconti anche nel documentario, nasce in maniera del tutto casuale con NOVE MAGGIO. In che modo avete ottenuto l'estetica registica fortemente originale per i suoi videoclip? E come si è interfacciato con te?

«La nostra fortuna, la mia fortuna soprattutto, è stata quella di trovare da subito una forte connessione con lui. Sin dalla lavorazione di NOVE MAGGIO ho potuto riscontrare la sua fiducia illimitata e anche la libertà di potermi muovere indipendentemente, altrimenti non credo che sarei rimasto per così tanto tempo legato alla sua figura lavorando in perfetta armonia. La sua capacità è stata quella di lasciarmi libero e soprattutto di avere fiducia rispetto a quelle che erano le mie idee. E da li è nato questo connubio tanto che ora potremmo quasi permetterci di lavorare ad occhi chiusi. Lasciandomi carta bianca riusciamo ad avere una perfetta sintonia anche rispetto a suggestioni che possono partire dai suoi testi».

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Courtesy of Ufficio Stampa

Nel film c’era l’intenzione di mostrare apertamente come Liberato sia oggi il custode e l’innovatore della canzone colta e popolare napoletana? Parlo della prima sequenza in cui segue suo nonno in chiesa e lo ascolta dirigere l’orchestra che esegue "Era de maggio" di Roberto Murolo.

«È così, assolutamente. Penso che Liberato sia in qualche modo, o cerchi di essere, in continuità e in comunicazione con quella che è stata la canzone e la musica popolare napoletana. Si è ispirato totalmente ad essa sia nei testi che proprio nel linguaggio, e non se ne vergogna nonostante sia un genere che oggi non viene molto citato e a cui non si fa riferimento particolarmente. In qualche modo Liberato nei suoi album, così come nella cover di "Cicerenella", si è legato molto alla canzone popolare che molto spesso viene dimenticata probabilmente perché erroneamente viene rappresentata come un genere non molto considerato, nonostante per Napoli significhi tanto così come per lui in prima persona».

La forma canzone napoletana si avvicina molto alla poesia..

«Sì assolutamente, Liberato cerca di fare proprio questo attraverso la musica così come anche io, nel mio piccolo, attraverso il formato video cerco di partire da un’immagine lirica, poetica, anche alta, e successivamente convertirla in un linguaggio comprensibile a tutti ed è una cosa che penso sia la base di quello che cerchiamo di fare. Portare la nostra autorialità, la nostra visione del mondo ma in un modo che possa comunicare a tutti e che possa essere anche popolare, nel senso buono del termine».

Avendo già lavorato alla musica originale del tuo primo lungometraggio Ultras, così come alla canzone originale di Mixed By Erry, ‘O DJ (DON’T GIVE UP), candidata ai David di Donatello per la Migliore Canzone Originale, secondo te potrebbe anche affermarsi nel mondo della musica per il cinema?

«Si si assolutamente, glielo auguro che possa andare avanti così. Sicuramente Liberato è un’artista che da sempre ha sentito la necessità di appoggiarsi al formato video. È una cosa che mi ha sempre chiesto e a volte è stato anche uno sforzo importante per me soprattutto nella realizzazione di tutti quei videoclip che dovevano corrispondere ai brani presenti nell’album, ma è una cosa che parte proprio da una sua esigenza, l’esigenza di riempire e di caricare di molteplici significati una canzone, di non lasciarla lì unicamente con un testo e una musica ma dargli anche un supporto video. Detto questo Liberato è talmente un progetto in divenire che potrebbe anche cambiare da un momento all’altro e decidere di non fare più video e fare uscire solo canzoni».

Nel documentario viene citata una frase per cui oggi "l’anonimato può essere un atto politico" perché la società di oggi è concentrata sull’apparire. Possiamo associare lo stesso concetto alla città di Napoli e al processo di scoperta?

«Soffermandomi su questo ultimo punto, se penso ad esempio a TikTok Napoli e a tutti i fenomeni da baraccone che ne sono scaturiti, penso che si sia un pochino perso questo elemento di cui parli. Al contrario, Napoli secondo me da quel punto di vista è diventata una città troppo social, in un certo senso si è venduta. Liberato rappresenta la parte di città che vuole essere scoperta, cercata, scovata, e penso che questo sia una delle sue forze che si ritrova perfettamente anche nel suo utilizzo dei social, nel suo modo di ricomparire in pubblico, nel modo in cui si esibisce nei live, ma anche nella sua stessa discografia.

Se pensi che in sette anni Liberato ha avuto dei momenti in cui è stato assente anche per due anni consecutivi comprendi come il suo progetto sia totalmente contro ogni logica discografica e di marketing. Addirittura in questi giorni di interviste è capitato che qualcuno mi abbia chiesto se la scelta di Liberato di non pubblicare canzoni fosse una scelta di marketing, ribaltando totalmente la visione per cui chi pubblica un brano al giorno per fare visualizzazioni e ascolti è diventato normale e al contrario chi si dedica alla realizzazione di una canzone quanto si sente realmente di farlo ed ha qualcosa effettivamente da comunicare è diventato un’anomalia (ride). La verità è che Liberato fa semplicemente quello che gli pare, è un’artista che si muove nella sua musica come preferisce, con il suo modo di fare e cerca sempre di farlo bene piuttosto che farlo perché deve funzionare. Non è soggetto alle leggi di mercato».

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Courtesy of Ufficio Stampa

Come incide la musica nella tua visione registica? Penso ad Ultras e poi a Lovely Boy, sui disturbi mentali nati dall’industria discografica che sfrutta l’immagine di giovani artisti fino all’osso.

« È un aspetto fondamentale. Ho cominciato facendo dei corti e successivamente mi sono avvicinato al mondo dei videoclip e mi sono reso conto che con la musica diventava tutto più facile. In entrambi i film c’è tantissima musica nonostante si dica che al cinema se c’è molta musica è perché "la scena non funziona e il regista ci ha piazzato su una composizione come riempitivo". Al contrario quando scrivo la sceneggiatura dei miei film mi annoto già la tipologia di musica da utilizzare per quella data scena e la stessa si conforma proprio in questo modo. Ormai è diventato un mio modus operandi e arrivati al terzo film posso dire che a prescindere che la musica sia diegetica oppure extradiegetica è veramente centrale nella mia visione. Ne Il segreto di Liberato ad esempio non c’è un momento in cui non sia presente musica. Dai live ai brani editi come "Era de Maggio" oppure "Veridis Quo" dei Daft Punk, anche le interviste sono accompagnate da alcune sezioni dei brani di Liberato. In questo caso penso che ci fossero veramente pochi dubbi sulla centralità della musica e quindi abbiamo deciso di mettere in campo tutto il mondo di sonoro di Liberato».

Come si colloca Il segreto di Liberato rispetto ai molteplici documentari sulle superstar e gli stessi biopic tesi alle volte unicamente a mostrare il lato scandalistico di una carriera artistica e meno la sua essenza musicale? Penso che ad esempio il vostro lavoro si avvicini molto di più alla visione che Brett Morgen utilizzò per la realizzazione del documentario di Kurt Cobain, Montage of Heck, anch’esso con una parte animata molto centrale ai fini narrativi.

«Montage of Heck è stato uno dei documentari che ho visto più volte nel periodo in cui stavo scrivendo la sceneggiatura de Il segreto di Liberato proprio perché, nonostante in quel caso ci sia una storia drammatica, mi piaceva come non veniva messo in alcun modo in risalto la scalata al successo dei Nirvana e di Kurt Cobain come figura generazionale. Si concentrava sull’emotività della sua storia, del suo personaggio e ho apprezzato la scelta radicale di inserire solo tre interviste nel documentario come alla madre, alla sua ex compagna Courtney Love e ai suoi due compagni di band Dave Grohl e Krist Novoselic. Molto spesso invece in questi documentari si cerca di raccontare una storia sparando nel mucchio, cercando di riprendere tante cose, di non concentrarsi sugli aspetti che sono effettivamente forti narrativamente parlando. Poi è chiaro che dipende sempre anche dall’artista che stai raccontando, cosa ha rappresentato e cosa puoi effettivamente mostrare agli spettatori. Nel nostro caso ho cercato di concentrarmi su un aspetto interessante che per me era fondamentale avendolo vissuto dall’interno e credo che sia la centralità di tutto il gruppo di lavoro che segue Liberato. È un gruppo di persone che sono amiche, che si vogliono bene, che hanno iniziato questo percorso tutti insieme e che ancora collaborano. Per me ad esempio questo è un aspetto che molto spesso viene tralasciato nei documentari, non si parla del gruppo di lavoro che c’è dietro un artista. Quindi abbiamo cercato di raccontare principalmente quello. Per me è questo il cuore del film».

Quindi si potrebbe dire che alla fine Liberato siete tutti voi?

«In qualche modo si, anche se in realtà a dirti la verità penso che noi tutti siamo ispirati da Liberato e quando lavoriamo con lui ci sentiamo liberati anche noi. Poi quando finiamo di lavorare per lui rientriamo nella nostra realtà effettiva tornando ad essere delle personale normali».