La sua prima protagonista, quella che le fece guadagnare il "titolo" di Bridget Jones italiana, si chiamava Monica, aveva 31 anni ed era cronicamente single. Le lettrici fecero la sua conoscenza in Mi piaci da morire, che arrivò in libreria nel 2005. Da allora di tempo ne è passato (e di romanzi anche: da S.O.S. Amore a Innamorata di un angeloSMS Storie Mostruosamente Sbagliate) e Federica Bosco oggi ci presenta un'altra sua creatura. Si chiama Francesca, ha un fidanzato perfetto che - ahilei - non ama più, un lavoro nell'editoria che la fa ammattire ma in fondo le piace un sacco e almeno un paio di buoni amici. La conosciamo ne Il peso specifico dell'amore (Mondadori, € 17). 

Francesca si sente in colpa perché non ama più un uomo che, invece, la adora. E si interroga su quale sia il peso specifico dell'amore. Tu quale pensi che sia?

«Le relazioni sono quanto di più complicato ci sia al mondo. Ci hanno insegnato a credere che esista una sola metà giusta per ciascuno di noi: una soltanto finché morte non ci separi. La verità, invece, è che si è giusti l'uno per l'altra per un tratto di strada, magari anche lungo. Poi, una volta esaurito il percorso, se non si individuano degli obiettivi comuni, se non esiste un desiderio di crescita personale, se non si manifesta l'intenzione di rimettersi in gioco, il rapporto rischia di rimanere paralizzato in una routine claustrofobica che, per quanto possa essere confortante, è (per citare la mia Francesca) una subdola zona di conforto. In tutti i miei libri precedenti le protagoniste si dannavano per trovare uno straccio di fidanzato decente, ma questa volta ho voluto analizzare l'altro lato della medaglia. Cioè: che cosa succede dopo i titoli di coda di Pretty WomanNotting HillShall We Dance? Dura per sempre il lieto fine? La risposta è no. Quando "l'abitudine supera il peso specifico dell'amore" quando cioè ti rendi conto che o cambi radicalmente qualcosa o la storia è destinata a concludersi, ti ritrovi obbligata a prendere una decisione».

Pur avendo accanto il dolce Edoardo, la protagonista si sente sola: perché l'amore dell'altro a volte non basta?

«Francesca comincia a sentirsi sola quando si rende conto di avere accanto un figlio più che un compagno. È un uomo delizioso, dolcissimo e pieno di premure ma, sempre per citare lei: "dinamico come una mensola". A un certo punto, sopraffatta dagli eventi (il lavoro in casa editrice per un editore fuori di testa che la sotterra di lavoro, una mamma depressa tenuta ostaggio dalla zia, nessuna gioia all'orizzonte) si accorge di quanto vorrebbe avere accanto qualcuno su cui contare, qualcuno che le dica: stai tranquilla, penso a tutto io. Anche l'amore ha un limite: a volte il partner non può fare nient'altro se non starti vicino. E questo limite può essere insopportabile».

Perché scrivi che "l'essere umano ha bisogno di sentirsi intossicato da qualcosa o da qualcuno"?

«Il nostro cervello è alla ricerca costante del piacere, di qualunque tipo, poco importa se emotivo o materiale, purché ci sia una scarica di eccitazione: per questo è così difficile uscire dalle dipendenze. Il cibo, il sesso, l'alcol, il fumo, lo shopping, il gioco, sono mezzi che il cervello usa per ottenere la sua "dose"  e distrarsi  dalla sensazione di ansia soffocante che ha radici sempre molto profonde e lontane: la paura dell'abbandono, la difficoltà di elaborare un lutto, la rabbia non risolta, per esempio. Anche l' amore (o meglio quel "bisogno" che noi scambiamo per amore, ma che niente ha a che vedere con l'amore vero) rientra esattamente nei parametri della dipendenza da stupefacenti. E la difficoltà di interrompere una "relazione tossica" sta proprio nel fatto che quasi sempre l'altra persona soffre della stessa identica dipendenza, così il circolo vizioso è molto difficile da spezzare, a meno che uno dei due decida di smettere di cercare il proprio "spacciatore"».

Francesca è disposta a tutto per avere una promozione: perché riuscire nel lavoro è così importante per lei? E per te, lo è?

«Il lavoro è l'unica cosa che ci dà l'ingenua impressione che ci sia almeno una cosa sotto il nostro controllo. Mentre tutto il resto (famiglia, amicizia, salute) dipende da fattori esterni, la carriera ci dà quella prova tangibile di essere bravi in qualcosa che ci conferisce un valore sociale, una soddisfazione anche piccola quando tutto il resto va a rotoli. Francesca lavora tanto perché il resto della sua vita è un'incertezza totale. È una brava editor, il suo capo le promette una promozione da sempre, e lei (come troppo spesso fanno le donne) si ammazza di fatica nella speranza di vedere ripagato il suo sacrificio. In fondo tutti cerchiamo sempre di dimostrare qualcosa a qualcuno: genitori, parenti, professori che dicevano che non avremmo mai combinato niente nella vita… l'elenco è infinito e spesso anche immaginario. Personalmente non mi sono affezionata a nessuno dei posti di lavoro in cui sono stata assunta  (ho cominciato a lavorare a 19 anni, quindi ne ho girati parecchi!): erano lavori con cui pagavo l'affitto e non ho mai avuto la scaltrezza necessaria a sgomitare per fare carriera. Adesso lavoro da sola: ma spesso sono molto più dura con me stessa di quanto non siano stati i miei capi!».