I tipi come Harvey Weinstein sono ovunque. E sono tanti, troppi. Ci sono quelli che non se ne vergognano neanche troppo (ricordi il "Grab 'em by the pussy" di Trump?) e quelli che sulla cresta dell'attualità se ne scusano pubblicamente, come ha fatto Ben Affleck, che nel 2003 ha dato una palpatina in diretta alla giornalista che lo stava intervistando su MTV.

Resta il fatto che di uomini che credono di poterti mettere le mani addosso e passarla liscia è pieno il mondo. E possono farlo perché noi stiamo zitte. E stiamo zitte perché abbiamo paura.

È l'amara conclusione che puoi trarre in questi giorni se stai seguendo la vicenda di cui tutti parlano: il mega produttore di Hollywood che negli ultimi 20 anni ha molestato sessualmente decine di attrici. Non si sa esattamente quante siano, perché in poche hanno deciso di parlare, per paura che nessuno le credesse, terrorizzate che quest'uomo estremamente potente rovinasse loro la vita.

Se è capitato anche a te (e le statistiche dicono che è molto probabile) forse non hai avuto il coraggio di dirlo a nessuno.

Forse ti sei sentita in qualche modo colpevole di aver "provocato" la violenza subita, di essertela andata a cercare, o addirittura di aver taciuto perché ti conveniva, come è successo ad Asia Argento che dopo aver parlato è stata attaccata da molte persone che l'hanno resa due volte vittima, oltre che di abuso sessuale anche di victim shaming, ovvero l'essere colpevolizzata pur essendo stata la preda.

O forse hai avuto paura di essere giudicata una ragazza facile, come è successo a Daisy e Audrie e a decine di ragazze che hanno cercato di togliersi la vita ma non fanno più notizia perché subire una violenza e venire massacrate dall'opinione pubblica è diventata la normalità. Ne leggiamo sui giornali quando la vita se la tolgono davvero, come è successo a Tiziana Cantone, 31 anni, dopo che il fidanzato ha fatto girare tra i suoi amici alcuni video hard, poi finiti in rete.

O forse hai avuto paura che le persone attorno a te, quelle che magari avrebbero potuto difenderti, minimizzassero, come è successo poche settimane fa quando il sindaco di Pimonte, un paesino in provincia di Napoli, dove una ragazzina di 15 anni è stata violentata da un gruppo di ragazzi, ha definito lo stupro "una bambinata".

I ricatti sessuali nel mondo del lavoro sono all'ordine del giorno e sono i più difficili da ammettere, per paura di perdere il posto o di essere tagliate fuori dal giro.

La modella Cameron Russell ha invitato le sue colleghe a denunciare i ricatti usando l'hashtag #myjobshouldnotincludeabuse (Il mio lavoro non dovrebbe prevedere l'abuso). Su Instagram denuncia gli abusi che ha subito, lei come moltissime altre, da parte di forografi, editori, stylist.

«Baci rubati senza il consenso, pacche e palpatine. Clienti che ti chiedono di metterti in topless o di spogliarti nuda. Foto di nudo pubblicate senza un contratto. Massaggi non richiesti. Mail, messaggi e telefonate inappropriate. Essere definita difficile, femminista, vergine o diva quando ti ribelli o dici di no» scrive su Instagram la top model.

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«Dove c'è un forte sbilanciamento del potere, c'è sempre la possibilità dell'abuso» scrive su Esquire la scrittrice Giulia Blasi, raccontando un mondo di ricatti, dove «è più comodo raccontarci che le donne sono puttane, piuttosto che fare i conti con l'idea che le donne siano considerate un oggetto da collezione, una cosa che puoi avere, e che sia normale che moltissimi uomini usino il loro potere economico e sociale a scopo di estorsione sessuale.»

È stata lei a lanciare in questi giorni l'hashtag #quellavoltache invitando tutte le donne a raccontare la volta in cui hanno subito molestie, apprezzamenti volgari, avances sgradevoli o vere e proprie violenze.

Un progetto collettivo, una narrazione corale per togliersi un peso dal cuore e sentirsi meno sole. Anche tu puoi far sentire la tua voce assieme a quella di centinaia di altre donne. Perché la Giornata contro la violenza sulle donne non si celebri solo il 25 novembre, ma tutti i giorni.

Gli hashtag da seguire

Ieri l'attrice Alyssa Milano ha lanciato l'invito a parlare, seguito da un fiume di tweet con l'hahstag #MeToo (Anch'io).

Assieme all'hashtag #StopTheSilence sta raccogliendo migliaia di testimonianze e ispirazioni a rompere il muro di silenzio che circonda la violenza.

#EverydaySexism, lanciato dall'attivista Laura Bates, raccoglie (anche su un sito) esperienze di sessismo subito da donne di tutto il mondo, nella vita di tutti i giorni.

Con l'hashtag #YesAllWomen le donne raccontano le loro paure per le proprie figlie femmine. «Viviamo in un paese sessista. Non voglio che lei subisca le stesse cose e faccia la stessa immane fatica per ottenere ciò che a un uomo è dato di diritto» esordisce Barbara Sgarzi, storica giornalista di Cosmo, in un post nel quale spiega perché avrebbe preferito avere un figlio maschio.

Con chi parlarne e come denunciare

Se hai subito una violenza fisica o psicologica, anche in casa o al lavoro, il primo passo per uscirne è parlare. Puoi chiamare il Telefono Rosa al numero 1522, una linea gratuita attiva 24/7, o recarti al centro antiviolenza della tua città.

D.i.Re, Donne in Rete contro la violenza, è l'associazione nazionale dei centri antiviolenza gestiti da sole donne. Qui trovi l'elenco di tutti i punti d'ascolto in Italia per trovare quello più vicino a te.

Hai il diritto di sporgere una querela alle forze dell'ordine entro 6 mesi dal giorno in cui hai subito la violenza (solo per violenza sessuale e stalking), in caso di minaccia, percosse, inguiria o molestia entro 3 mesi.

[Nell'immagine che apre questo articolo c'è Hannah Baker, la protagonista di Tredici (13 Reasons Why), la serie tv prodotta da Selena Gomez che mette in scena le dinamiche del cyberbullismo e del victim shaming, che la portano al suicidio. Se non l'hai ancora visto lo trovi su Netflix, in questi giorni stanno girando la seconda stagione.]