La scoperta di Homo naledi, una nuova specie umana antichissima che sta rivoluzionando la storia dell'evoluzione, è iniziata con un annuncio su Facebook: "Si cercano ricercatori esperti in speleologia molto magri". Quando Marina Elliott, giovane antropologa canadese con la passione per i fossili, a ottobre del 2013 ha saputo di questo appello lanciato da Lee Berger, noto paleoantropologo dell'Università di Witwatersrand a Johannesburg (Sudafrica) ed esploratore del National Geographic, non si è fatta scappare l'opportunità. «L'annuncio di Fb non l'avevo nemmeno visto, è stato il mio supervisore di dottorato (allora frequentava l'Università Simon Fraser in British Caledonia, Canada, ndr) a mandarmi il link via e-mail, perché sapeva che praticavo abitualmente la speleologia. Quando l'ho letto ho subito pensato che poteva essere la mia occasione», spiega la ricercatrice.

È così che Marina è entrata a far parte delle underground astronauts, le 6 studiose che si sono calate attraverso i pericolosi e claustrofobici cunicoli delle grotte di Rising Star (traduzione inglese del termine "Dinaledi" che in lingua locale sotho significa stella nascente), a circa 50 km da Johannesburg, fino a raggiungere un impressionante giacimento di fossili. Il sito era stato scoperto solo pochi mesi prima per caso da due speleologi.

Quei reperti (oltre 1.550!) sono poi risultati appartenere a diversi individui di una nuova specie umana, chiamata Homo naledi (stella in lingua sotho), che getta nuove e suggestive luci sulle nostre origini. La storia di questa scoperta eccezionale è raccontata dall'unico scienziato italiano che ha partecipato allo studio dei fossili di Rising Star, Damiano Marchi, paleoantropologo dell'Università di Pisa, nel libro Il mistero di Homo naledi (Mondadori, 19 euro), al quale ho avuto la fortuna di collaborare.

Se il recupero dei fossili (trasportati a mano dalle astronauts) è stato affidato a un team composto solo di ragazze, lo si deve a una vera e propria selezione naturale. Il tragitto molto angusto (appena 18 cm di diametro in alcuni punti), infatti, ha imposto a Lee Berger di scegliere tra i candidati esperti speleologi con la corporatura più snella quelli in possesso dei cv di maggiore spessore scientifico. Ebbene, i migliori sono risultati tutti… donne!

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Marina Elliott al lavoro: qui si sta preparando a recuperare i fossili di Homo naledi

Marina in questa avventura ha avuto un ruolo molto importante, perché è stata la prima scienziata a scendere a 30 metri di profondità all'interno delle grotte di Rising Star fino alla cavità (chiamata Camera di Dinaledi) che custodiva da tempo immemorabile i fossili. Insieme alle sue colleghe ha lavorato per ben 21 giorni ininterrottamente per recuperare i reperti e studiare il sito. Non solo, Marina ha anche partecipato a uno scavo successivo e, quindi, insieme a Damiano Marchi e a un'altra sessantina di giovani scienziati arrivati a Johannesburg da tutto il mondo, ha preso parte al gruppo di studio che ha analizzato i fossili per circa un mese.

Alto un metro e mezzo appena e un cervello piccolo come un'arancia, Homo Naledi secondo le analisi di Marchi e dei suoi colleghi, era in grado sia di arrampicarsi sugli alberi sia di camminare in posizione eretta. Inoltre, la sua scoperta custodisce tuttora molti affascinanti segreti: che cosa ci facevano, per esempio, così tanti individui in un luogo così impervio e nascosto? Questa domanda suggerisce che l'"uomo stella", sebbene così primitivo, potesse essere già in grado di formulare dei riti di sepoltura. Insomma, secondo gli scienziati finalmente saremmo in presenza dell'anello mancante nella scala evolutiva dell'uomo. Una rivelazione che sta già mettendo in dubbio molte teorie finora condivise dalla comunità scientifica. 

Ma che cosa significa fare la scienziata ed esploratrice, quasi una sorta di Indiana Jones al femminile, in un mondo come quello della ricerca paleoantropologica, tra l'altro ancora dominato dagli uomini? La parola a Marina Elliott.

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Marina Elliott, appena uscita dalla grotta di Rising Star, consegna i primi fossili ai colleghi paleoantropologhi

Sono passati circa due anni e mezzo dalla scoperta: quali sono i ricordi più emozionanti che ti sono rimasti nel cuore?

«Ci sono molti grandi ricordi di quella prima spedizione. Il primo viaggio verso il basso nella camera era ovviamente un punto forte, come è stato il giorno abbiamo recuperato un grande frammento di cranio e portato in superficie per la prima volta. Anche trovare l'articolazione di una mano completa durante il secondo periodo di scavo è stato immensamente emozionante».

Come è avvenuto il tuo colloquio di selezione?

«Il professor Berger mi ha richiesto di inviare via email il cv completo e poi mi ha intervistato tramite Skype. Pochi giorni dopo, mi è arrivata la conferma che ero stata accettata. A parte le caratteristiche fisiche, per cui ho dovuto dimostrare di riuscire a passare attraverso un passaggio di 18 cm di diametro, non ho dovuto superare dei veri e propri test!»,

Non hai mai avuto paura di calarti in una grotta così stretta e quasi inesplorata?

«Per niente. Avevo già parecchia esperienza in speleologia e arrampicata, quindi i piccoli spazi non erano un problema per me. Tuttavia, la prima volta che nel percorso ho visto ciò che poi abbiamo chiamato "la Chute", una fessura verticale di 10 m, ammetto che mi sono un po' innervosita, tanto più che è in quel punto che c'è la strettoia di 18 centimetri con un punto di presa a metà strada verso il basso ed era molto difficile muoversi. Ma anche questo è diventato "normale", dopo un paio di giorni!».

Come ti sei sentita quando sei arrivata nella cavità che custodiva i fossili (la Camera di Dinaledi) e hai visto così tante ossa?

«Ovviamente, è stato molto eccitante renderci conto di quanto materiale c'era realmente nella grotta. Ma ne sono rimasta anche intimidita, perché con le mie colleghe ci siamo rese subito conto che ci aspettava molto più lavoro di quanto ci aspettavamo e che avremmo dovuto essere estremamente attente nel portare i fossili in superficie».

È stata dura lavorare in una grotta sotto terra, con così poco spazio a disposizione?

«È stato molto impegnativo, ma anche gratificante. Le condizioni erano davvero estreme: lavoravamo in tre (le underground astronauts si davano il cambio in due team, ndr) molto vicine le une alle altre, per 5-6 ore al giorno con le mani e stando in ginocchio, ma la squadra ha lavorato molto bene insieme e alla fine visto i risultati ne è valsa la pena!».

Le donne hanno svolto un ruolo importante nella Spedizione di Rising Star. C'è uguaglianza oggi nel campo della ricerca?

«Questa è una domanda difficile. Ci sono davvero molte donne che apportano importanti contributi alla ricerca in paleoantropologia. Credo che stiano sicuramente guadagnando terreno in molte aree. Eppure, gli uomini tendono ancora a dominare nelle posizioni gerarchiche superiori della disciplina, quindi penso che ci sia ancora spazio per migliorare».

Tre cose che hai imparato da questa esperienza?

«Innanzitutto, che la ricerca scientifica è un lavoro di squadra. Senza l'enorme team di persone che ci hanno aiutano noi "astronaute" non saremmo riuscite a fare nulla. La seconda cosa che ho imparato è che il ritrovamento di Homo naledi dimostra che probabilmente tutto quello che credevamo di sapere sull'evoluzione umana e l'origine della nostra specie è da rivedere. Infine, ho avuto la prova che l'esplorazione scientifica resta importantissima: ci sono ancora grandi cose da scoprire in questo mondo!».

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