"Sei stata rimossa dal gruppo". Quando queste parole sono comparse sullo schermo del suo iPhone, Laura (il nome è di fantasia), 32 anni, copywriter, si è sentita come se le avessero dato un pugno allo stomaco. «Lavoravo con Carlotta ormai da qualche anno, ma è bastato non riuscire a partecipare alla cena a sorpresa che aveva organizzato per il suo ragazzo per ritrovarmi tagliata fuori», racconta. Dopo essere stata rimossa da vari gruppi su whatsapp e bloccata su twitter, Laura ci ha messo poco a capire che la stava escludendo anche dalle varie uscite tra colleghi. «Vedevo su Fb le foto di alcune serate, ma io non ero stata invitata», dice. Laura si è sentita confusa e ferita, ma ciò che l'ha colpita di più è stata l'umiliazione. «È stato come se avessi di nuovo 5 anni, come se mi avessero detto che non potevo più giocare con loro. E tutto questo stava succedendo su un forum pubblico e chiunque poteva vedere il mio dolore: bastava solo scorrere la pagina o dare un'occhiata alle notifiche di chi era taggata, al contrario di me». Quando poi ha scoperto (sempre su facebook) di non essere stata invitata all'addio al nubilato di Carlotta, la situazione è esplosa. «Mi sono messa a piangere, poi è arrivata la rabbia», confessa. «Ero incredula ma, soprattutto, mi chiedevo perché ciò mi stesse toccando in modo così profondo». Ed è proprio così: nei conflitti emotivi non volano pugni, non ci si tirano i capelli e nessuno resta con un occhio nero, ma dentro ci si può sentire comunque a pezzi. E se c'è ancora chi sostiene che lividi e ferite siano cose reali, mentre vergogna e umiliazione "restano nella nostra testa" e, dunque, non contano, le neuroscienze oggi dimostrano che anche il "dolore sociale" (quello provocato dall'essere rifiutati da un gruppo o dallo scoprirsi bersaglio di tweet infamanti) è vero e può essere devastante.

Occhio alle mean girls 

Secondo alcune ricerche, mentre gli uomini tendono all'aggressione fisica, sarebbero proprio le donne a usare di più il "dolore sociale" come arma d'attacco attraverso l'ostracismo e il bullismo verbale. Una diversità di genere che si fa notare soprattutto fino alla tarda adolescenza, cioè in un'età in cui la società tollera le scazzottate tra maschi. Del resto, non capita spesso di vedere volare i pugni in un ufficio, sebbene uno studio del 2009 della Griffith University di Brisbane (Australia) abbia scoperto che anche le donne adulte sono spesso vittime di bullismo al femminile. In più, un sondaggio svolto nel 2010 dal Workplace Bullying Institute ha rivelato che lei adotta comportamenti aggressivi "più meschini" di lui. Gary Namie, autore dello studio, ha spiegato: «Le bulle spesso avvicinano la vittima facendole credere di essere amiche per poi rivelarne i segreti durante le riunioni o in occasioni sociali tra colleghi». Orribile, no? La brutta notizia è che in un'era digitale come la nostra le aggressioni emotive sono in aumento e i social non fanno che esacerbare il dolore provocato dall'esclusione. Pensaci: twitter e Fb sono delle piazze dove partire all'attacco sotto gli occhi di migliaia di amici e follower. Per non parlare delle malignità postate su instagram, che possono essere lette da milioni di persone. Del resto, il nostro costante bisogno di riempire i social di foto in cui ci stiamo divertendo un mondo, ha come contraltare la schiera di amici che non abbiamo invitato e che possono sentirsi rifiutati per questo. E oggi, attraverso lo smartphone, litigi e aggressioni ci raggiungono in palmo di mani e il senso di frustrazione si fa ancora più intenso. L'esclusione emotiva via social è oggetto perfino di contese in tribunale. Nel 2015 Rachael Roberts, un'agente immobiliare australiana, ha vinto una causa contro una collega in quanto i giudici hanno stabilito che quest'ultima "togliendole l'amicizia su Fb" aveva commesso un "atto di bullismo sul luogo di lavoro".

Pugnalate alle spalle

Con l'aumento del fenomeno, sempre più ricercatori hanno iniziato a studiare il dolore sociale e le sue conseguenze. Per Kip Williams, docente di Psicologia sociale alla Purdue University in Indiana (Usa), tutto è cominciato un pomeriggio di sole mentre si trovava al parco col suo cane e un frisbee gli è caduto accanto. Alzando lo sguardo, ha visto due ragazzi in attesa che lui glielo rilanciasse per riprendere la partita. Cosa che ha fatto. «Stavo per risedermi, ma loro me lo hanno lanciato di nuovo», racconta Williams. «Così abbiamo iniziato a passarcelo finché, a un certo punto, hanno smesso di colpo. Hanno continuato tra loro senza più guardarmi e non è stato affatto piacevole. Mi ha colpito il modo in cui un'esperienza di esclusione così banale fosse riuscita a ferirmi in un modo così viscerale». Quei ragazzi non potevano sapere che Kip Williams, oltre a essere un esperto in dinamiche sociali, stava proprio studiando i meccanismi dell'ostracismo. Senza volerlo, quindi, gli hanno dato un'idea brillante. Il ricercatore ha ricreato in un laboratorio la stessa situazione, osservando (da dietro un vetro a specchio) ciò che accade quando qualcuno, per esempio in una sala d'attesa, dopo essere coinvolto da due perfetti sconosciuti in un gioco in cui ci si passa un oggetto, viene poi escluso senza preavviso. «L'esperimento ha avuto sui volontari che vi hanno partecipato un impatto straordinario», dice Williams. «Ha influito sulla loro autostima, sulla percezione di riuscire o meno a controllare l'ambiente e, soprattutto, sulla "esistenza significativa", cioè la consapevolezza di essere riconosciuti o, al contrario, invisibili. Ma ha anche provocato loro rabbia e tristezza. È stata un'esperienza così forte che perfino osservarla è stato faticoso». E ciò che accade nelle nostre teste è ancora più esplosivo. Per scoprirlo, Williams ha coinvolto nella ricerca due neruroscienziati dell'Università della California, Naomi Eisenberger e Matt Lieberman, che hanno analizzato i meccanismi che scattano nel cervello quando veniamo esclusi. Per farlo, hanno seguito attraverso uno scanner le reazioni cerebrali di alcuni volontari mentre giocavano a Cyberball, un videogame per pc, dicendo loro che si trattava di battere degli avversari umani, mentre in realtà era stato programmato in anticipo in modo da tagliarli fuori all'improvviso. «Quando venivano esclusi dal gioco, si attivava la corteccia cingolata anteriore, la stessa area del cervello che si accende quando proviamo dolore fisico», dice Williams. Che si tratti di elettroshock o di uno scambio caustico di mail, per il nostro cervello non fa alcuna differenza. «Si dice che il dolore sociale stia tutto nella nostra testa e in un certo senso è vero: è lì che soffriamo, ma è ciò che accade anche con il dolore fisico. La struttura cerebrale che entra in gioco è la stessa», aggiunge lo studioso.

Meglio un pugno?

In realtà, l'angoscia che proviamo in certe situazioni, e che può durare per giorni o anche settimane, arriva a essere spesso ben più straziante di un fortissimo ma fulmineo calcio negli stinchi. «A volte, preferiremmo un dolore fisico, piuttosto che subire lo strazio di un addio dopo una relazione importante», osserva Giorgia Silani, neuroscienziata della Scuola internazionale superiore di studi avanzati di Trieste. «Del resto, in queste situazioni è come se anche il nostro corpo si ammalasse». La ricercatrice italiana ha condotto diversi studi sempre osservando con lo scanner il cervello di volontari che giocavano a Cyberball, solo che subivano anche un lieve elettroshock. «Abbiamo avuto così conferma che il dolore sociale può essere percepito con la stessa intensità di quello fisico», spiega. A un simile risultato è arrivato anche Ethan Kross dell'Emotion and Self-Control Laboratory dell'Università del Michigan (Usa). Kross ha monitorato con lo scanner il cervello di 40 persone che erano appena state piantate dal proprio partner in modo particolarmente brutale. I volontari dovevano guardare le foto degli ex e ricordare il momento esatto in cui erano stati respinti. In più, venivano sottoposti a lievi bruciature. Ebbene, le due tipologie di dolore hanno attivato le stesse identiche regioni del cervello.

Il meccanismo X factor

«Esistono diversi tipi di sofferenze sociali, dall'imbarazzo al tradimento, dall'ostracismo da parte di un singolo a quello di un gruppo, dall'aggressione alla rottura», dice Williams. Alla base, però, c'è sempre un rifiuto. E chi decide i palinsesti televisivi lo sa bene! Proprio l'esclusione, spesso umiliante, è il motore di molti programmi di successo. X-Factor non è solo un talent show che mette alla prova aspiranti cantanti: l'energia emotiva che lo alimenta arriva dal voto del pubblico e dal rifiuto subìto da chi viene giudicato non abbastanza bravo per continuare, un rifiuto che si consuma in diretta davanti a milioni di persone. Lo stesso meccanismo usato in The Apprentice, sebbene con modalità diverse. Grande Fratello è, però, il format che da sempre sfrutta il meccanismo del dolore sociale in modo più scientifico: qui i coinquilini e centinaia di migliaia di spettatori esprimono il proprio insindacabile giudizio sulla personalità di ogni concorrente. La brutalità di tali programmi è denunciata proprio dallo studio delle dinamiche che stanno dietro a questo tipo di comportamenti. Se il dolore che i concorrenti mostrano sullo schermo fosse accompagnato dal sangue anziché dalle lacrime, si tratterebbe di uno spettacolo horror. Ma non è così, e quindi questi programmi restano in prima serata e sono più simili a The Hunger Games che al film splatter Countdown. Se ti sembra incredibile che oggi una donna in gamba e realizzata provi l'agonia del rifiuto in modo così profondo, sappi che ci sono delle ottime ragioni, le cui radici risalgono ai tempi in cui vivevamo in tribù di un centinaio di persone o poco più. «Il punto è che siamo degli animali molto deboli», spiega Silani. «Siamo lenti, non abbiamo molta forza e non sappiamo volare. Per sopravvivere, dunque, abbiamo dovuto per forza aggregarci all'interno di una società. E per procurare il cibo ai suoi membri, servivano almeno cinque o sei persone: nessuno cacciava da solo». A quel tempo, un rifiuto del gruppo avrebbe probabilmente comportato la morte. La sofferenza sociale, secondo gli esperti, sarebbe alimentata da questa paura atavica: è un campanello di allarme che ancora ci informa che qualcosa non va, e che bisogna prendere dei provvedimenti urgenti.

Quando Soffrire è utile

Da questo punto di vista, subire un rifiuto non è diverso dal sentire un male fisico: funziona come una sorta di sirena silenziosa che ci dice di non toccare una ferita aperta o di non camminare sforzando una gamba rotta. In entrambi i casi, è un'informazione essenziale: ne abbiamo bisogno per vivere. Il fatto che dolore fisico e sociale siano in pratica la stessa cosa, poi, significa anche che la medicina sta facendo un sacco di nuovi studi che possono aiutarci a curare entrambi. Alcuni ricercatori dell'Università del Kentucky (Usa) hanno scoperto che il paracetamolo così come allevia il mal di testa, cura anche l'angoscia da rifiuto. No, non ti stiamo consigliando di riempirti di analgesici per superare le fitte interiori che provi sentendo le tue amiche parlare di quella chat su whatsapp di cui tu non fai parte. Però cercare il lato positivo di questo tipo di sofferenze può rivelarsi molto utile. Laura, per esempio, si è liberata di Carlotta e ha cambiato lavoro trovandone uno migliore. E ora che quell'amicizia tossica non fa più parte della sua vita, è più felice che mai. Oggi ammette che se non avesse sofferto così tanto, non avrebbe avuto il coraggio di dare un cambio di rotta alla sua vita. Come dice Williams: «Il dolore ha la sua utilità».